venerdì 2 settembre 2011

Diario di un volontario ARCI. Gianluca Solera racconta gli 8 giorni trascorsi sull'isola

Diario di un volontario Arci a Lampedusa

“Benvenuti a Lampedusa”: una mega-foto di una spiaggia che abbraccia acque cristalline occupa un’intera parete nella zona di arrivo dell’aeroporto (...). E' così che inizia la prima pagina del diario di un volontario ARCI* che racconterà la sua esperienza a Lampedusa.
Diario: GIORNO 1 –“Benvenuti a Lampedusa”

 “Benvenuti a Lampedusa”: una mega-foto di una spiaggia che abbraccia acque cristalline occupa un’intera parete nella zona di arrivo dell’aeroporto e i viaggiatori, come nel paese dei balocchi, si mettono davanti alla foto e si fanno riprendere come se fossero là, sotto il sole cocente.
 Click! Click! Click! Il gioco piace a molti vacanzieri e visitatori. Ma i ragazzi dell’Esercito Italiano e i reparti speciali della Polizia questo gioco non lo fanno (neanch’io, se per quello). Sull’aereo della Meridiana vi erano almeno sette giovani militari in tuta mimetica ed un numero equivalente di giovani poliziotti che portano cucito sulla giacca il numero di gruppo sanguigno. Sembra un titolo, come Caporeparto, o Vicedirettore, o Architetto, ma poi fa un certo effetto leggere “RH positivo”. Non mi era mai capitato di incontrare in pochi metri quadrati (quelli della sala consegna bagagli) uomini di Esercito, reparti speciali della Polizia e Guardia di Finanza tutti insieme, belli e splendenti come solari guerrieri della Magna Grecia. Stivali lucidati, equipaggiamento con accessori, begli orologi.

A Lampedusa, ognuno si sceglie il proprio esercito. L’altro, quello dei volontari dell’Arci, o di Medici senza Frontiere, o di Borderline Europe o di Terres des Hommes li trovo sulla terrazza di una delle loro case, sotto un cielo nero e calmo, a parlare di ciò che han fatto, visto e sentito quel dì. Non ci si annoia mai a Lampedusa, mi hanno spiegato. Portano sandali, canottiere o capigliature multiforme e fumano sigarette fatte a mano. Sono belli pure loro, ma è una bellezza diversa, innanzituto femminile; le ragazze prevalgono, ed il colore dei loro indumenti accende gli sguardi. Se quelli del primo esercito vengono da Trapani, Palermo  o Lecce (così si dicevano tra loro, ed io ad ascoltarli), quelli del secondo vengono da Genova e Roma, o dalla Lombardia; c’è pure una tedesca. Non ne possiamo fare una regola sociologica, perché ogni giorno è sicuramente diverso, e i ragazzi dei due eserciti turnano regolarmente, ma è comunque bizzarro fotografare due Italie così, in pochi incontri.

Due eserciti per fronteggiare gli arrivi di umani dal mare. Poi ci sono evidentemente i professionisti dell’accoglienza, come la cooperativa che gestisce il Centro di Prima Accoglienza e Soccorso, o gli arruolati dell’ultim’ora, come quel somalo che ha guidato lo scafo fino a Lampedusa senza aver mai preso tra le mani un timone in vita sua prima di allora. Sono scafisti per poche ore, che se vogliono portare a buon termine la loro avventura alle coste italiane ci devono arrivare non accompagnati, perché gli scafisti veri restano a terra e li salutano con la manina dalla spiaggia da cui li ammarrano. Oppure diventano scafisti per poche ore perché così pagano meno per attraversare il mare. Strategie da centri commerciali. Quando mi hanno raccontato questa storia, ho pensato a quei due alpini imbarcati per portare la guerra in un arcipelago greco: vi ricordate il film Mediterraneo di Salvatores? Quei due alpini non sapevano neppure nuotare, figuriamoci il loro mulo.
Le organizzazioni accreditate che possono entrare nel Centro di Primo Soccorso o nella Zona portuale di Lampedusa sono poche. Oltre ad alcune di quelle menzionate sopra, mi hanno segnalato la Croce Rossa, L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) e l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). Ognuna di queste si è ritagliata uno spazio operativo che è stato loro autorizzato dalla Prefettura, e fanno bene la loro parte. Attorno al Centro, però, girano molte persone che sovente non possono entrare; è un mondo anche quello, un Limbo fatto di ricercatori, giornalisti, o forse semplici curiosi o osservatori indipendenti.

Allora, quelli che si sono fatti le ossa a Lampedusa nei giorni più caldi degli arrivi in massa, se qualcuno chiede loro : “Ma tu per chi scrivi?”, rispondono: “Io sono un turista”. Così si smarcano dalla mischia. Di turisti ve ne sono ancora a Lampedusa (il mio aereo ne era pieno) anche se meno di prima, e quindi dichiararsi un turista non disturba e allontana i sospettosi. E può anche diventare un modo per parlarsi tra i due eserciti. Francesca, che sta qui con l’Arci da qualche mese, si è imbattuta in un militare che aveva steso l’asciugamano a fianco del suo in spiaggia, in un momento di riposo. L’accento toscano di entrambi è stata la miccia, e quando si son chiesti: “E tu che fai qui?”, hanno pensato bene entrambi di dichiarare quello che un italiano sa fare meglio d’estate: “Sono un turista, e tu?”.


Diario: GIORNO 2 – Personaggi in cerca d’autore

Al Centro di Prima Accoglienza e Soccorso arrivi in bicicletta o in scooter, imboccando una strada di campagna all’uscita dal centro abitato di Lampedusa.
Qualche centinaio di metri prima del portone di ingresso, un posto di blocco della Guardia di Finanza ti controlla i documenti, poi prosegui, parcheggi, suoni, ti registri e sei dentro. Il Centro ha due zone, la prima ospita gli uffici delle forze dell’ordine, l’aministrazione, gli uffici delle organizzazioni internazionali (Organizzazione internazionale per le migrazioni, Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati e Save the Children) e le camerate di donne e minori. È tutto calmo, ed è facile identificare gli angoli della scena occupati da ogni attore. I militari all’ingresso, la Polizia sul lato destro, gli operatori umanitari su quello sinistro e i gestori di servizi che appaiono e scompaiono. Pare che non si smuovano dai loro circoscritti territori, mentre i mediatori culturali tessono le fila tra gli uni e gli altri. Molte comparse, i minori, e nessun regista.

La seconda zona ospita gli uomini. Ed in questa, in quanto volontari Arci, non siamo potuti entrare, a causa del rifiuto dell’ente gestore del Centro di aprire le porte per adotte ragioni di sicurezza (mentre altri vi accedono), ma abbiamo solamente potuto conversare con gli uomini separati da una grata di ferro. È stato come stare in un confessionale.
Tu ti avvicini, appoggi la mano alla grata, le dita si sfiorano, se parli arabo ti chiedono di potersi confidare, ed inizia il rituale.

C’è chi confessa.
Sabir ha 26 anni, all’età di 14 è arrivato a Brescia ed ha vissuto come clandestino per circa dodici anni, senza mai essere affidato a nessun ente nonostante la minore età. Ha avuto solo un foglio di via ed è poi stato respinto. Ha quindi ripreso la via del mare. Con la voce tremante, quasi chiedendo scusa, confessa di aver fatto lo spacciatore di droga. Ora, evidentemente, si aspetta di essere rimesso su un aereo e rimandato in Tunisia, nonostante parli con un’accento della Bassa bresciana che piacerebbe anche a quelli della Lega.

E c’è chi implora.
Saïd è arrivato a Lampedusa per la terza volta in un mese e mezzo, sempre in nave, sempre respinto. Poiché era diventato ormai un’habitué, ad ogni successivo imbarco gli facevano uno sconto: 2800 dinari la prima volta, 2300 la seconda e 2000 la terza. Ovvero circa 3500 € in tutto. Viene dal sud profondo della Tunisia, dove le famiglie si fanno letteralmente la guerra per avere un lavoro nelle miniere di fosfati, e teme per la propria vita. Le due precedenti volte che l’hanno respinto, si è fermato a Tunisi ed ha preferito cercare ospitalità altrove piuttosto che tornare indietro. Vuole chiedere il diritto di asilo, ma nessuno a quanto pare gli ha preso i dati e registrato la domanda di asilo. L’operatrice dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati non trova la domanda di Saïd. “Domani la faremo” – promette, ma domani è oggi, giovedì, ed i giovedì ed i lunedì effettuano i trasferimenti. Saïd è terrorizzato all’idea di dover ritentare di attraversare il mare una quarta volta.

Ho fatto qualche conto. Il soggiorno al Centro costa tra i 37 ed i 45 € pro capite al giorno per un adulto, ed 80 € per un minore, secondo voci raccolte sull’isola (i costi della convenzione tra Stato ed ente gestore del Centro dovrebbero essere resi pubblici, ma per ora non sono accessibili). Al Centro puoi stare tra i tre giorni e le quattro settimane. L’ufficiale della Polizia che si occupa di registrare i nuovi arrivati non ha potuto darmi una media di durata di soggiorno quando gli ho chiesto l’informazione, adducendo che è difficile fare una stima precisa: ora, è la Protezione Civile che coordina le operazioni di trasferimento e dislocazione sul territorio italiano, non più la Polizia. Ieri vi erano 525 presenze a Lampedusa, di cui 180 minori, un dato considerato modesto. La maggioranza di questi sono tunisini. In base agli accordi tra autorità italiane e governo tunisino di transizione, molti di questi tunisini vengono rimpatriati. Il giro di denaro legale per le strutture di accoglienza e di denaro illegale per i traffici marittimi è enorme quindi, e beneficia sia i gestori di strutture di accoglienza che i gestori degli scafi. Entrambi, minimizzano i costi e massimizzano i profitti, preparando pietanze ripetitive, gli uni, e affidando il timone agli immigrati, gli altri.

Un caso di virtuoso circolo di denaro per l’economia in nero e l’economia dell’emergenza?

Diario: GIORNO 3 – Cose che non tornano

Sono qui da poco più di 48h e molte cose non tornano.

Maria, lampedusana che lavora a Palermo, si attizza quando uso la parola “ghetto” per definire il Centro di Prima Accoglienza e Soccorso. Il vero “ghetto” è l’isola di Lampedusa, almeno quelli che stanno al Centro dopo poco se ne vanno, i Lampedusani no, ed anche se gli abitanti dell’isola inscenano proteste plateali come quella del 2009, quando paralizzarono l’aeroporto per un mese, restano gli ultimi della classe.
 Un solo medico per tutta l’isola (da condividere con gli extracomunitari), nemmeno un reparto maternità. Non si nasce a Lampedusa, si nasce a Palermo; Maria dice: “Almeno gli immigrati hanno una sala operatoria, un’ostetrica e Medici Senza Frontiere, noi neppure quelli”.

Il Centro di Prima Accoglienza e Soccorso dovrebbe essere una stazione di transito e chi vi arriva non potrebbe starvi più di 48 ore. Ma la realtà non è questa. Ho conversato con un tunisino che è a Lampedusa dal 4 di agosto.
Un altro, arrivato il 13 agosto con altri 208, è ancora qui, e con lui altre sei persone. Nel porto di Lampedusa è attraccata da quattro giorni la nave della Grimaldi che effettua i trasferimenti, e non ha ancora ricevuto l’ordine di salpare (di solito, la nave riparte nel giro di poche ore). Le presenze al Centro hanno già raggiunto le 643. Il 22 luglio u.s. Left Avvenimenti pubblica la notizia che il direttore del consorzio che gestisce il Centro di Lampedusa, tale Cono Galipò, è incriminato per illeciti profitti al Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Sant’Angelo di Brolo, in provincia di Messina, avendovi trattenuto gli immigrati più del previsto, bel oltre il rilascio del permesso di soggiorno. Secondo la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Patti, «l’illegittima permanenza al centro di 248 richiedenti asilo avrebbe comportato l’“ingiusto” esborso di 468.280 € (+ Iva) a favore del consorzio», in quanto il centro riceve 40 € + Iva al giorno per ciascun ospite.  

La notizia dei respingimenti di 115 immigrati effettuati in mare il 21 agosto u.s., senza che questi venissero portati a terra, notizia che ha fatto il giro degli organi di stampa questa settimana grazie alla segnalazione dell’Arci, è circolata in modo bizzarro. Una delle sette persone che viene fatta sbarcare dalla Guardia costiera a Lampedusa, un ragazzo tunisino di 22 anni che accompagna il fratello paraplegico, mi conferma di essere stato portato al porto nel tardo pomeriggio. Alle ore 20.02 della stessa sera, l’Ansa pubblica la seguente notizia: «[...] L'imbarcazione è stata raggiunta dalle motovedette della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera a circa 35 miglia dalla costa: 6 persone, tra cui il paraplegico e due donne, bisognose di cure sono state portate a Lampedusa. Tutti gli altri sono stati imbarcati sulla nave della Marina ''Borsini'' che li consegnerà a una motovedetta tunisina che li riporterà nel loro paese». Uno di quelli che erano destinati ad essere respinti in mare aperto, al sentore di quello che stava succedendo, si butta dalla nave italiana prima di essere trasferito su quella tunisina e si rompe un piede. Viene quindi portato a Lampedusa e conferma ad alcuni operatori, il giorno successivo, che l’operazione di respingimento è avvenuta all’una di notte, quindi dopo il lancio di agenzia. Chi ha passato un’informazione così delicata (i respingimenti in mare sono illegali) all’Ansa ben cinque ore prima che avvenisse?

Mi è sembrato di capire che i giovani che arrivano a Lampedusa non ricevano adeguata informazione sui loro diritti, ed in particolare sul diritto alla richiesta di asilo. Saïd, il ragazzo arrivato a Lampedusa per la terza volta in un mese e mezzo, sempre in nave, sempre respinto, che avevo incontrato il giorno prima e che aveva espresso la volontà di richiederere asilo, alla fine della mattinata del giorno successivo non era ancora stato contattato da UNCHR, ma per fortuna non era stato rimpatriato. Contattiamo allora l’Ufficio Migrazioni al Centro; il responsabile è molto cooperativo, e manda immediatamente un mediatore culturale (traduttore) da Saïd a ricevere la volontà di richiesta di asilo. Perché non si applica una sistematica politica di informazione sul diritto di asilo a tutti i nuovi arrivati?

È difficile trarre insegnamenti da spezzoni di cose che non quadrano, ma le poche riflessioni che potrei trarre sono le seguenti:
- Gli immigrati che arrivano non sono sempre percepiti come soggetti portatori di diritti, e se succede qualcosa che va contro le norme internazionali, la loro testimonianza resta debole per la situazione di precarietà e irregolarità in cui si trovano. Un accompagnamento ed una consulenza legali dovrebbero essere assicurate sin dal giorno dello sbarco.
- Il traffico illegale di immigrati può diventare una fonte di lucro anche per le strutture di ricezione legalmente stabilite. È bene monitorare modalità e tempi di trasferimento affinché non vi siano abusi.
- Ci sono molte persone valorose che assistono gli arrivi; stare fisicamente al Centro è un lavoro psicologicamente difficile, e quando hai a che fare con delle persone, se sei un uomo lo puoi dimostrare, e trovare le vie per denunciare o prevenire atti disumani come il respingimento. È facile dettare legge da un ufficio romano, ma solo chi passa lungamente per questi centri può capire cosa significhi applicarla. E poiché siamo tutti umani, sarebbe bene credo assicurare che vi sia una rotazione regolare tra chi opera in questi centri, come avviene perle forze dell’ordine, per non rischiare di cadere nella routine e perdere la pazienza e l’umanità.
- E i Lampedusani, almeno un reparto maternità ed un’ortopedia se li meriterebbero, invece di campi da golf e cose del genere. Quest’isola e la sua gente sopportano per tutti noi l’impatto di un fenomeno che va oltre le frontiere nazionali.
Diario: GIORNO 4 – Casa, lavoro, divertimento

Alla fine,abbiamo deciso di tradurre in arabo la dichiarazione di nomina di un avvocato di fiducia per i richiedenti asilo politico, e l’abbiamo fatta firmare al tunisino Saïd. Il capo dell’Ufficio Immigrazione vi ha apposto il timbro, e con questo documento un avvocato potrà seguire legalmente il processo di accertamento dello status di rifugiato di Saïd, dopo il suo spostamento dal Centro di Prima Accoglienza e Soccorso ad altri centri.
Di frequente, in effetti, i tunisini vengono spostati ai Centri di Identificazione ed Espulsione (Cie), e non ai Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara), nonostante la richiesta d’asilo.

Il 5 di aprile u.s., sono scaduti i termini legali per l’accettazione da parte delle autorità italiane di tunisini per motivi umanitari in seguito all’instabilità generata dalla Rivoluzione dei Gelsomini. È stata la seconda volta che l’Italia ha applicato questa misura straordinaria per motivi umanitari, la prima fu con la guerra in Kosovo. Tuttavia, per molti di questi ragazzi con cui parliamo da dietro la grata, non è chiara la differenza tra il “permesso di soggiorno per motivi umanitari” e il “permesso di soggiorno asilo politico”. Ti chiedono il primo perché così è stato loro detto di fare prima di imbarcarsi, nonostante il periodo di applicazione della misura straordinaria di accettazione per motivi umanitari sia scaduta da quasi cinque mesi. Questo vuol dire che le autorità tunisine non informano adeguatamente i loro giovani (credo che abbiano altre cose da sistemare, per il momento, con la data delle elezioni per il Consiglio Costituente che si avvicina), e soprattutto che la mafia degli imbarchi faccia disinformazione, alimentando speranze infondate.
Francesca, la coordinatrice della missione Arci a Lampedusa, si è dedicata quindi a dare chiarimenti sull’asilo. Molti riconoscevano di non avere subito persecuzioni per ragioni politiche e si convincevano a desistere dal chiedere l’asilo. Due ragazzi hanno invece richiesto di manifestare volontà di asilo politico, ed abbiamo richiesto all’Ufficio Immigrazione di ricevere la loro richiesta.

Un altro ragazzo di Sidi Bouzid, la città dove si diede fuoco il giovane Mohamed Bouazizi nel mese di dicembre u.s., scatenando la Rivoluzione dei Gelsomini, mi dice che la polizia e l’esercito sparano ancora sulla gente nel Sud della Tunisia, e le tensioni continuano. Conosco Sidi Bouzid, ci andai nel mese di marzo per conoscere alcuni attivisti. È lontana da Tunisi, e la campagna è secca.

Per molti di questi ragazzi tunisini, il destino è il rimpatrio. “Come facciamo a restare qui?” – mi chiede un ragazzo in dialetto tunisino, che fatico a capire. “Voi in Italia avete lavoro, casa e divertimento. Anche noi vogliamo questo” –dice un’altro. L’altra sera, un’operatrice che lavora con i minori, ci ha raccontato una storia. Un ragazzo poco meno ventenne sbarca a Lampedusa. Passa per il Centro di Prima Accoglienza e Soccorso, l’operatrice gli spiega della triste sorte che toccherà ai tunisini e poi viene in effetti rimpatriato. Dopo qualche tempo, l’operatrice lo ritrova al Centro.
“Cosa fai qui di nuovo?”
“Ho riattraversato il mare, ma questa volta sarà diverso”
“Perché?”
“Perché sono ridiventato minorenne”
Aveva dichiarato di essere un minore per non essere rimpatriato, e così è poi riuscito a mettersi in viaggio per la Svezia, dove risiedevano alcuni suoi famigliari.

Per gli altri tunisini , è un terno al lotto. Al Centro di detenzione ed espulsione ti possono trattenere fino ad un anno e mezzo, e se il giudice di pace non decide diversamente, sei rimpatriato. La fortuna è un elemento fondamentale in questo gioco. Può anche capitare che, nonostante sia stato emesso l’ordine di espusione, questo non venga eseguito per ragioni amministrative, o semplicemente perché non vi sono voli di ritorno disponibili prima della scadenza dei termini del trattenimento.Oppure può capitare che il clandestino venga ricoverato all’ospedale, magari perché si è ferito volutamente, e dall’ospedale scappi. Oppure che riesca a scappare dal Cie.

Sarebbe meglio arrivare legalmente, ovvero con visto turistico, o di studio, o attraverso un ricongiungimento famigliare o attraverso i “flussi” (contingentamento degli arrivi di immigrati per un periodo determinato); ma nell’immigrazione per motivi economici, la legge italiana sembra fatta apposta per favorire il lavoro in nero piuttosto che il contrario, perché devi dimostrare di avere un contratto di lavoro al momento stesso del tuo arrivo in Italia.

Nel frattempo, ignari del destino che li aspetta (“Ma dove ci portano,dopo?”) gli stranieri del Centro cercano piccoli piaceri per ammazzare il tempo. I più fortunati sono i minori, perché stanno nella zona delle ragazze e possono godere della loro compagnia. Alcuni di loro mi chiedono di cambiare un biglietto di 5 € in monete, per comprare una bibita gassata alla machinetta. Per correttezza, chiedo alla Polizia se posso farlo, e mi danno l’okay. Poiché alcuni hanno usato in passato le monetine per aprirsi le ferite e farsi ricoverare, preferisco accompagnarli alla macchinetta. Le bevande sono strettamente vendute in bottiglie di plastica, non in lattine di alluminio. Poi tocca ad uno dei giovani che stanno dietro la grata. Al poveraccio hanno rubato la maglietta, ed i pantaloni che ha ricevuto dal personale del Centro gli sono larghi, e li deve stringere alla vita con un cordino. Per darsi una consolazione, mi chiede il favore di acquistargli un espresso alla macchinetta. Delle tre macchinette per le bevande calde disponibili al Centro, di cui nessuna sta nella zona uomini, una sola funziona. Porto il caffé alla grata e lo faccio passare da sotto.

Non è molto del “lavoro, casa e divertimento” che questi ragazzi sognano, ma a questo ragazzo il gusto forte dell’espresso gli fa pregustare quello che potrebbe raggiungere. Fortuna permettendo.

Diario: GIORNO 5 – Shuftu al Maut

“Shuftu al-Maut. Ho visto la morte” – dice Safwan nel giorno in cui il numero delle presenze a Contrada Imbriacola supera le 800 con gli ultimi sbarchi. La morte di un mare aperto e nero che può inghiottirti senza chiederti il permesso, e non restituirti più.
Come il fratello di Ayman, arrivato a Lampedusa il 19 agosto con altre centodieci persone. Vuole cercare il fratello o almeno la sua salma. “Ditegli che si metta il cuore in pace, il mare purtroppo non ci ha restituito nulla” – ci dice il poliziotto. Il fratello di Ayman era uno di tre dispersi, che il mare si è preso per sempre. Ed anche se il corpo arrivasse in costa, il suo viso e le sue dita sarebbero così corrose che l’identificazione sarebbe molto difficile, anche attraverso le impronte. Mettiamoci il cuore in pace, anche se ad Ayman non siamo ancora riusciti a dirglielo.

Nel piccolo cimitero di Lampedusa vi sono alcune seppelliture senza nome. Sono gettate di cemento su cui è stata incisa sul cemento fresco la parola “exstracomunitario” (con la “s”) a fianco della data di sepoltura, ed un codice scritto con dello spray blu come “A/2008”. Su una di esse vi sta scritto “n° 3 cadaveri”, e sulla gettata vi sta un nastro tricolore ed alcune pianticelle rinsecchite; seppelliti l’8 maggio 2011, emanano un tanfo orribile. Questi cadaveri non avendo nome, non potevano trovare riposo eterno che con quella dicitura, uno accanto all’altro. All’angolo opposto del cimitero, vi stanno delle piccole tombe in un’aiuola, con una croce di legno piantata sopra ed un codice come “n°3 – 02”. Forse sono dei bambini, o dei minori. I loro occupanti, probabilmente di fede musulmana, sapranno perdonare la croce apposta da chi non è abituato a seppellire mori; è già stata una fortuna che siano stati sottratti al mare immenso.

Lo stesso mare che ha attraversato il gruppo che vedo arrivare al Centro di Prima Accoglienza e Soccorso, verso le due del pomeriggio. Arriva in autobus dal porto e viene fatto attendere sotto una tettoia per procedere alle operazioni di registrazione. Un poliziotto ha la mascherina sul viso. Sono forse una sessantina, hanno visi stanchi e gli occhi bassi ed attendono, chiedendosi probabilmente che succederà ora.

Le storie che raccogli tra gli immigrati parlano di piccole e grandi barche e di molte ore, talvolta venti, in balia del mare. Non tutti amano parlare di come sono arrivati, un ragazzo algerino dagli occhi chiari si rifiuta di rispondere, un tunisino della regione di Sidi Mansub, arrivato una settimana fa con altri ventinove, mi chiede perché voglio sapere così tante cose, temendo che io possa trasmettere queste informazioni al suo governo. Il tunisino ha pagato 750 €. Un volo andata e ritorno charter per Monastir non costa così tanto, anzi ci viaggi in due e ti fai una settimana di ferie tutto compreso. È chiaro che ormai gli scafisti non vengono più; lasciano le barche a chi ha pagato per attraversare il mare, e che si arrangino. Hanno voluto la bicicletta? Che pedalino! Proliferano allora le iniziative del “Fai da Te”.  Un ragazzo di Sfax, insieme ad altri quattro, ha rubato un’imbarcazione e sono partiti in nove. Un altro è arrivato con gli amici in barca a vela: ma come avrà fatto? Merita di partecipare ad una competizione sportiva; forse qualcuno dei nostri governanti con un veliero potrebbe ingaggiarlo.

E ci si mette di mezzo anche Facebook.
È la storia di Ahmed, un ragazzo tunisino di 32 anni che parla romanaccio perché ha vissuto una vita intera con i suoi genitori a Fiumicino, mentre lui era rientrato dalla nonna a Tunisi, dopo una vita tormentata tra droga, violenze famigliari, disturbi di salute e carcere. Ahmed è salito su una spedizione che è stata organizzata via Facebook, ed a cui hanno risposto in 57. Non ci ha messo una lira, hanno pagato i suoi amici per lui, ma probabilmente il suo valore aggiunto era che parla l’italiano alla romana meglio di tutti noi. C’è poi chi ci ha messo la benzina, chi la barca, e via.

Ma non c’è solo il mare, ci si mettono anche i ladri. I furti tra immigrati sono frequenti, in barca come a terra, al Centro. Si rubano i vestiti (ieri ho parlato con due ragazzi a cui non era rimasto che l’asciugamano per coprirsi i fianchi), naturalmente i soldi, ma anche documenti e altre cose. Una responsabile della Polizia mi segnala il caso di due somali che sono stati derubati e vengono trattati male dagli altri immigrati, in maggioranza arabi, e verranno quindi trasferiti nella zona delle donne e dei minori, a causa dell’isolamento di cui soffrono nella zona degli uomini.

Munir mi informa anche che un uomo delle forze dell’ordine sulla motovedetta italiana gli ha sequestrato 50 €, la batteria del cellulare ed una pacchetto di sigarette, e mi chiede di segnalare la cosa all’amministrazione. Quando segnalo la cosa alla responsabile della Polizia, questa reagisce male, la prende come se fosse un accusa alle forze dell’ordine, anche se la Polizia non sale sulle motovedette, e spiega che i furti avvengono tra di loro. Non me la sento di trasmettere la segnalazione altrove.

Ahmed, un ragazzo di Keirouan è invece nello sconforto. È molto giovane, ha fatto le scuole superiori e vuole continuare gli studi; ha pagato 1000 € per imbarcarsi, e non sapeva che sarebbe stato rimpatriato una volta attraversato il mare; è questo il destino di molti giovani onesti, che credono di poter entrare in Italia via Lampedusa e raggiungere una persona conosciuta che può offrire loro un lavoro. Lui, conosce un impresario di Lodi che potrebbe dargli un lavoro come muratore, ma gli sono stati rubati gli oggetti personali, tra i quali aveva i contatti del lodigiano, e non sa più come ritrovarlo. Gli dico che avrebbe dovuto accordarsi con il lodigiano dalla Tunisia, ma ora è troppo tardi, verrà rimpatriato. A Keirouan conosco Amer Jeridi, noto professore di scienze ambientali e rispettato esponente della società civile locale. Anche lui lo conosce di fama: gli dico allora di cercarlo una volta rientrato a Keirouan; Amer ha contatti con molte organizzazioni in tutta Europa e può forse proporre qualcosa ad un giovane volenteroso. È tutto quanto gli posso dire, da dietro la grata. È poco, lo riconosco, ma non trovo giusto seppellire tutte le sue speranze.
Diario: GIORNO 6 – Rimpiangendo Orano

A pochi metri dall’ingresso sento un fruscio sotto le gomme della mia bicicletta, mi giro e vedo un incartamento per terra. Credendo di avere perso le copie del formulario di nomina dell’avvocato per la procedura d’asilo, mi fermo e raccolgo l’incartamento.
 È un atto della Questura di Agrigento con la lista di un trasferimento del 26 agosto, con 17 nominativi di immigrati diretti a Milano. Queste liste sono riservate. L’Arci ha già richiesto di accedervi, e non ha ancora ottenuto l’okay. Se dovesse riceverlo, potrebbe visionare i trasferimenti nei diversi centri in Italia, senza però ricevere i nominativi ed i relativi dettagli anagrafici, bensì solamente i codici di identificazione di ciascun straniero. L’incartamento che mi trovo per caso sotto i piedi è dunque un documento interno. Qualcuno, dopo averlo usato per accompagnare gli stranieri all’aeroporto, se ne è liberato così, come molti fanno con le cicche delle sigarette. Ogni ragazzo è ripreso in una foto con il cartellino che porta il numero di registrazione al suo lato, tenuto da un’ufficiale, di cui si vede la mano. Uno solo di loro tiene il cartellino con la propria. Per vincere la noia, qualcuno ha fatto una caricatura di alcune delle foto. Con un pennarello rosso, ad uno ha disegnato due grosse orecchie, ad un altro degli occhialoni e ad un altro ancora una casquette da basket portata di traverso. Porterò l’incartamento ad Askavusa, l’associazione culturale lampedusana che ha creato nei propri locali un piccolo museo dell’immigrazione, dove tiene pezzi di imbarcazioni, oggetti personali e documenti di immigrati restituiti dal mare. Sull’isola vi sono due cimiteri di imbarcazioni. Il più grande sta davanti al porto, a fianco dei ristorantini di pesce. L’accesso è continuamente sorvegliato da un paio di militari appoggiati alla loro jeep, e non è possibile penetrarvi. Sono tutte imbarcazioni in legno, e l’unico nome che riesco a decifrare su uno scafo è “Wahran”. Wahran è il nome arabo di Orano, la città algerina del Raï, quel ritmo che scuote i locali da ballo più della samba.
Fu il mio primo viaggio in terra araba, nell’estate del 1990. Partii per l’Algeria con Nour Ammiche, un amico di Sidi bel Abbes che avevo conosciuto all’università di Parigi, e Orano fu certamente la città più viva che visitai, in quei mesi di timore ed inquietudine per la vittoria del Front Islamique du Salut alle elezioni amministrative, che anticipò l’inizio della guerra civile.
“Per risolvere i problemi dell’Algeria, imbarcate delle belle ragazze europee su quattro navi e portatele qua” – amava dire Nour. Non l’abbiamo fatto, ed in cambio, gli algerini hanno pensato bene di imbarcarsi loro per venirsele a prendere e portarle nei loro soffici giacigli.

Invece, hanno trovato letti scomodi e ufficiali muscolosi. A Contrada Imbriacola vi erano ieri 638 uomini. Poiché non possiamo accedere alla zona uomini, Haytham conta per noi e calcola 36 letti per camerata (dato questo da verificare, perché sembra esagerato), 16 docce e 16 bagni. Molti dormono in tre su due materassi affiancati disposti sul pavimento. Io stesso noto nella zona dei minori e delle donne un gruppo di ragazzini che dorme sotto gli alberi su materassi ricoperti da un tessuto sintetico. Sono in quindici. “Perché dormite fuori, avete caldo nelle stanze?” “No, non c’è posto”. O forse, per entrambe le ragioni.
I minori sono particolarmente fortunati, hanno degli alberi attorno ai complessi prefabbricati a loro adibiti, sono vicini all’infermeria ed agli operatori, e possono parlare direttamente con i dipendenti dell’ente gestore o con le forze dell’ordine. Gli uomini devono invece fare la fila dietro la grata ed aspettare lungamente per andare dal medico, o gridare e gesticolare per richiamare l’attenzione degli operatori e richiedere qualcosa, come il buono pasti quando è scaduto, o la scheda di identificazione quando non è ancora stata consegnata, o i servigi del barbiere. E uomini muscolosi allora chiedono loro: “Che vvuoi? Aspetta! E noi che c’entriamo. Mo’ viene l’assistente”. Ma quando le forze dell’ordine stanno nervose, mandano al diavolo anche i minori: “E vvai! Cammina! Stiamo mangiando, non vedi?”. È divertente vedere due che si parlano, uno in arabo dialettale e l’altro in italiano colorito, facendo ricorso a gesti e imitazioni per comunicare. Ieri però, mentre segnalavo un paio di richieste di visita medica, ho trovato un ragazzo dell’amministrazione che parlava qualche parola di arabo, l’unico nel Centro, e mi ha incuriosito. “Ween ta’allamta ‘arabi? Dove hai imparato l’arabo?”. “Qui, sul campo”. Tanto di cappello.

Le file di uomini davanti alla grata sono particolarmente scoraggianti, e possono prolungarsi per delle ore. Non mi pare che gli immigrati vengano informati degli orari di visita medica. Al Centro vi è un solo medico che si alterna con un’altro. Un altro medico di Medici senza Frontiere fa assistenza, ma non è dell’organico. Di solito prendono due immigrati alla volta da dietro la grata, ma ieri, in seguito al tentativo di uno di loro di saltare la grata, la responsabile della Polizia mi ha chiesto di informarli in arabo che da allora in poi ne avrebbero presi quattro alla volta.
“Inzil, law samahta. Scendi per piacere. Tra poco è il tuo turno” – gli ho dovuto dire perché scendesse, mentre stava appollaiato a tre metri dal suolo. Poi in realtà ne hanno chiamati tre alla volta. Sta di fatto che il ragazzo che ha inscenato il salto ha innervosito i sette poliziotti che avevano fatto cintura da sotto la grata. La presenza dei volontari Arci è sicuramente un deterrente a situazioni di tensione con le forze dell’ordine, e la nostra funzione è quella di calmare e mediare. La nostra presenza fa anche miracoli, ora che Myriam, Viviana e Margherita ci hanno raggiunto da Milano e facciamo la bella figura di essere una squadra di osservatori internazionali. Anche i ragazzi immigrati l’hanno notato, e fanno a gara per fare grandi sorrisi e complimenti alle nostre ragazze, già oggetto di diverse richieste di fidanzamento...

Per la prima volta da quando sono a Lampedusa, Federico, il direttore del Centro di Prima Accoglienza e Soccorso, si è avvicinato alla grata ed ha preso richieste da alcuni immigrati personalmente, dimostrando una disponibilità nuova. Inoltre, il numero di persone delle forze dell’ordine che sta alla grata è aumentato, non se se per interagire con gli immigrati o sorvegliare anche noi.

Ma i piccoli miracoli contano, e vanno registrati.
Diario: GIORNO 7 – Bip bip bip bip, bip bip bip bip

Il filosofo Walter Benjamin diceva che la storia non segue una linea retta od una spirale e non si svolge in un tempo omogeneo, ma avanza attraverso rotture e lacerazioni. Ieri, la storia ha bussato alla porta di Contrada Imbriacola, e l’angelo della distruzione ci ha sfiorato.

La giornata è iniziata prestissimo. È un lunedì, giorno di trasferimenti per gli immigrati del Centro di Prima Accoglienza e Soccorso. Alle 6.30 mi sveglio mentre la coordinatrice Francesca già prende il caffè in cucina con Rainews a tutto volume. Vuole andare a vedere se a Cala Pisana è ancora ormeggiata la nave della Grimaldi adibita ai trasferimenti. L’aria è fresca e mi convinco a seguirla, con il costume da bagno addosso. Il mare è leggermente mosso ed affascina, ma della nave nessuna traccia. E se fosse al porto? Giriamo le bici e riprendiamo il viale del cimitero; il porto sta dalla parte opposta della cittadina di Lampedusa. Passando davanti a degli hangar situati in un’area periferica dell’aeroporto, notiamo per caso sulla pista un aereo della Sirocco.com. Ci guardiamo e guardiamo i movimenti di persone sulla pista: sì, è una partenza di immigrati. Ci avviciniamo con le bici alla rete di protezione esterna, ma manteniamo una certa distanza. Ci sentiamo osservati. La visuale è buona, siamo a circa 150 mt dall’autobus della Lampedusa Accoglienza e dalle camionette delle forze dell’ordine. Raggiungono la rampa dell’aereo in piccoli gruppi di tre, ovvero due accompagnatori ed un immigrato tra loro, e salgono tutti sul velivolo. Alcune delle persone accompagnate sono piccole di statura e ci chiediamo se siano dei minori, se la terna non sia composta da due minori ed un accompagnatore. L’imbarco avviene lentamente, forse per ragioni di sicurezza o per espletare procedure amministrative. Restiamo una ventina di minuti, poi Francesca rientra a casa, dove erano rimaste le altre volontarie dell’Arci. Io vado al porto, con l’intenzione di fare il bagno. Il porto e un tratto della costa meridionale dell’isola si vede da un’altura su cui arriva la testa della pista dell’aeroporto. Proprio quando sono arrivato davanti alla pista, decolla sopra la mia testa un volo, che curva in cielo e prende la direzione nord. Della nave Grimaldi al largo, nessuna traccia, deve essere ancorata in un’altra cala. Inforco la bici e proseguo per una stradina che costeggia in tutta la sua lunghezza la pista e porta ad altre calette, dove vorrei immergermi. Quando mi trovo esattamente dalla parte opposta a quella da dove avvistammo l’aereo della Sirocco.com, vedo la sua coda mettersi in posizione di partenza e decollare. Brrroum!

Il bagno mi darà le energie per affrontare la giornata. Poco prima di mezzogiorno entro al Centro e mi dirigo agli uffici dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, per sapere se alcuni dei richiedenti asilo segnalati dall’Arci siano partiti per altri centri di identificazione ed espulsione o di accoglienza per richiedenti asilo nella Penisola. “Nessuno”, mi risponde la funzionaria. Quando chiedo se sa in che centri sia stato trasferito il gruppo di oggi, sorride e nicchia; l’informazione è confidenziale. Sono partiti in una trentina.

Mi avvicino alla grata della zona uomini per parlare con Nabil, il ragazzo tunisino che è rimasto in un carcere per quattro anni perché membro del Fronte democratico, fino a quando con la Rivoluzione dei gelsomini le porte delle galere sono state sfondate. Nabil non è alla grata. Ramzy, il ragazzo di Keirouan, mi supplica di chiamare una conoscente spagnola che l’aspetta ad Oviedo e che potrebbe trovargli un lavoro. Mi dà il numero di telefono e l’indirizzo su Facebook.
“Dile que la quiero mucho”. E prosegue ancora in spagnolo: “Però, dimmi, è vero che ci riportano tutti a Tunisi?”
“A Tunisi no, a Tunisi no” – avevano cominciato a gridare da dietro in diversi, mentre parlavo con Ramzy, e i ragazzi che si erano già messi in fila sulla scalinata che porta allo sportello di distribuzione del rancio cominciano ad agitarsi. “No mangiare, no!” – gridano, minacciando lo sciopero della fame. Vola una bottiglia d’acqua sopra la grata.
“Ci hanno chiamato da Tunisi, quelli che sono partiti ieri” – impreca un altro in arabo (sicuramente intendeva la mattina stessa, ma forse li avevano già fatti uscire dalla zona uomini la notte prima).

E la porta dell’Inferno improvvisamente si apre. È una questione di secondi. Due si mettono a cavalcioni sulla grata, poi scendono perché gli altri cominciano a scuotere la grata come una foglia d’autunno. Suona l’allarme: bip, bip bip bip, un suono ritmato ed ossessivo, senza fine. Alcuni agenti si avvicinano e gridano di stare calmi. Sono sulla parte destra della grata e imploro i ragazzi tunisini davanti a me di calmarsi, perché altrimenti tutto va a rotoli e se ne tornano dritti dritti a casa.
La grata trema una seconda volta, poi una terza, mentre le forze dell’ordine indossano la tenuta anti-sommossa, Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza tous confondus. Si avvicinano i mediatori della Polizia nella confusione di grida e guizzi di ragazzi che salgono sul crinale saltando la rete esterna. Fino a quel momento non avevo ascoltato le mie emozioni, forse la Palestina mi ha insegnato qualcosa, ma quando lo faccio mi assale la paura. Bip bip bip bip. Sono bloccato tra la grata e il cordone delle forze dell’ordine. Uno dei mediatori negozia la nomina di tre rappresentanti degli immigrati che vadano a parlare con i capi. Alcuni poliziotti socchiudono la grata, li fanno uscire e li portano in una zona tranquilla, dove incontrano i responsabili dell’Ufficio immigrazione e della Sicurezza. Mentre tutte le forze dell’ordine si mettono in posizione, scivolo via e raggiungo gli altri.
Ho la gola secca e mi tremano leggermente le mani. Arrivano i Vigili del Fuoco con gli idranti e i Carabinieri con le cartucce di gas lacrimogeno.

Un ragazzo che indossa la maglia dell’Inter con il numero 22 di Milito ci dice in francese: “Mi hanno chiamato sul cellulare. Sedici sono stati portati a Palermo e sedici a Tunisi”.
Quando i tre rappresentanti riguadagnano la zona uomini, prima scrosciano gli applausi, poi risale la tensione. Vogliono uscire, vogliono scappare; ma che cosa avrà promesso loro la Polizia e la Protezione Civile, nella persona di una signora distinta ed elegante con gli occhiali da sole che a noi ci evita sempre? Il Paradiso?

Verso le 13.30 l’allarme generale viene spento, ma alcuni minori fanno suonare quello antincendio che prosegue per un’altro quarto d’ora. Poi è una lunga attesa ed un incrocio di sgardi tra le forze dell’ordine, equipaggiate per lo scontro, e gli immigrati tunisini, che discutono tra loro. Alcuni lasciano l’assembramento e saltano di nuovo la rete sul crinale (ma dov’è l’Esercito?). La Polizia avanza sul lato e para la falla.

Alle 14.45, quando la tensione è decisamente scesa, lascio il Centro con le ragazze. Abbiamo fame, dobbiamo digerire le emozioni, dobbiamo fare un passo indietro. Dunque li rimpatriano da qui, dunque è possibile, dunque il Governo italiano sta forzando la mano e applica la clausola del rimpatrio senza identificazione utilizzando apparentemente gli accordi presi con il governo tunisino di transizione in aprile. Ma non capiamo che questi ragazzi sono disposti a morire pur di non riattraversare il mare? Ma non capiamo che non si possono trattenere per due, tre o quattro settimane uomini e ragazzi in gabbie disumanizzanti per poi ricacciarli indietro bleffando, senza dare loro una possibilità di giustificare il loro desiderio di restare, per di più il giorno della fine del Ramadan? Quell’aereo della Sirocco.com, partito poco prima delle 8, non può aver sostato a Palermo, aver lasciato il Console tunisino effettuare le operazioni di identificazione, e poi aver ripreso la direzione di Tunisi in poche ore, quando i ragazzi della “gabbia” hanno ricevuto telefonate dai rimpatriati tra le undici e mezzogiorno. Ma allora tutta la trentina è stata rimpatriata, e non sedici come diceva il ragazzo interista? E se fosse stato un test per vedere come reagiscono i tunisini? “Imbarchiamone poche decine e vediamo se tutto fila liscio” – si sono forse detti i fautori dell’operazione.
Ma niente è filato liscio.

Quando rientro al Centro alle 18.15, la sorpresa: da pochi minuti sono scappati verso il porto in centocinquanta, o forse trecento, saltando le reti sul crinale retrostante la zona uomini. Una fuga verso la libertà. Vogliono respirare, camminare, buttarsi a mare. Un pallone salta tra le gambe di quelli che sono rimasti nella “gabbia”, una piccolissima ma tarda concessione offerta a questi ragazzi dall’inesauribile voglia di vivere.
Che cosa avranno detto i responsabili ai tre rappresentanti degli immigrati questa mattina? Lo sapremo sul porto: trasferimento negli altri centri entro due giorni. Se sono scappati verso il porto, evidentemente è perché non si fidano.

Ci dividiamo in due gruppi: Viviana e Myriam restano a Contrada Imbriacola, io e Margherita andiamo al porto, dove ci raggiungerà più tardi Francesca. Gli immigrati sono assembrati su una delle estremità della zona portuale, vicino ad un’area del demanio militare. Molti hanno fatto il bagno buttandosi dagli scogli frangiflutti, o hanno gettato in acqua la tessera di identificazione. Le forze dell’ordine non ci fanno passare, anche se le altre organizzazioni accreditate ad entrare al Centro di Prima Accoglienza e Soccorso sono tutte là. Indietreggiamo. Quando arriva Francesca, riprovo con lei ad oltrepassare il cordone di sicurezza. Entriamo ed iniziamo a conversare con due immigrati. Un agente della Digos alza la voce e ci ordina di andar via, fomentato dalla signora distinta ed elegante con gli occhiali da sole della Protezione Civile, che da quel momento ribattezzo “la Vamp”, ma un carabiniere e dei poliziotti ci difendono: hanno il permesso, restano.
Non ci muoviamo più e chiediamo agli immigrati che si avvicinano di non parlarci per non innervosire lorsignori. Quando ci vedono, però, ci vogliono salutare calorosamente, senza grata a dividerci. Nabil, Sufwan, e due che non riconosco che ci dicono “Shukran! Grazie per tutto!”.

L’attesa sarà lunga, e andrà ben oltre la mezzanotte, quando gli ultimi immigrati accetterano di salire sul bus di ritorno verso il Centro. Sarà una lunga negoziazione: secondo la legge, al Centro di Contrada Imbriacola non dovebbero essere trattenuti per più di 48h, dopodichè non avrebbero più il potere di tenerli dentro. Le autorità usano i guanti di velluto, e le forze dell’ordine si comportano bene. Verso le 22, una parte dei ragazzi si convince a salire sul bus, ma quando arriva a piedi cantando un gruppo di minori seguito a distanza dagli agenti, il bus oscilla a più non posso, e fanno riscendere i ragazzi. Mentre l’umidità si stende su ogni cosa, i ragazzi si coprono e si siedono per terra. Alcuni di loro intonano “Lasciatemi cantare”, animati da un’ingenua passione per il nostro Paese. Un primo bus parte, un secondo pure, ma quelli del secondo, dopo poche decine di metri, fermano l’autobus e scendono, ritornando indietro. Appare il sindaco di Lampedusa, un uomo grosso che sembra la comparsa di un film, e inscena un comizio elettorale: “Tre giorni, uno, due e tre”. Promette ai suoi ascoltatori che se ne andranno verso la Penisola in tre giorni. Poi li prende uno ad uno e con energica gesticolazione li fa alzare: “Sù, ragazzi, che è tardi e dovete ancora mangiare”. Uno, due, tre, fa con le dita della mano. Un ragazzo ribatte segnalando il due. Due dita, come avevano detto i responsabili ai loro rappresentanti in mattinata.
Viviana ci informa dal Centro che li hanno assembrati sotto le pensiline di arrivo per perquisirli, prima di farli rientrare nella zona uomini.
Al porto, uno degli ultimi a salire sulla camionetta si rivolge ai carabinieri e dice in inglese: “Se ci rimandate indietro, I will return. Andremo a Roma, andremo a Milano, andremo a Chievo”. E a Sampdoria, no?

Intanto, a Contrada Imbriacola con l’ultimo arrivo si riaccende la tensione. Viviana e Myriam sono stressate. Fanno scendere i ragazzi dell’ultimo bus tutti insieme, e il disordine riprende quota, mentre i ragazzi scappano dappertutto. “Volano pezzi di vetro, coltellini e sassi” – ascoltano le nostre ragazze da un agente, sassi raccolti sulle colline circostanti e buttati dai tetti dei prefabbricati della zona uomini. Un finanziere ha un ginocchio messo male, un carabiniere è ferito e tre minori vengono portati al pronto soccorso; non si capisce che succede e sarà solo dopo le 1 del mattino che la situazione si calmerà. Due giorni, tre giorni, mai?

Quando chiamo da casa Francesca che dal porto si era spostata a Contrada Imbriacola, sento dietro la sua voce quel suono: bip bip bip bip, bip bip bip bip. Non ho più voglia di analizzare. Ingoio mezzo melone giallo e lascio le ragazze sole a terminare la cena.

8 GIORNO - Ultima pagina del diario - IL MIRAGGIO

E mentre mi trovo immobilizzato nell’aeroplanino che rulla sulla pista di decollaggio, diretto a Catania insieme a isolani e turisti, lei appare. È la nave della Grimaldi che avevamo tanto cercata, tozza, grigia e fumante, che costeggia la zona aeroportuale navigando verso Cala Pisana. Mancano pochi secondi alla partenza, l’aereo si gira per il decollo, non c’è tempo per riaccendere il telefonino ed informare le ragazze.
 Quando le raggiungo un’ora più tardi, non vi è più traccia della Grimaldi. Vanno a Cala Pisana, niente. Verso il porto, niente. Un miraggio, un miraggio ch’eppur io ho visto.

Questa è forse la miglior immagine di quanto ho vissuto in questi giorni, di quanto succede qui a Lampedusa. Un Centro di Prima Accoglienza e Soccorso nascosto tra le pieghe del terreno di un’isola piatta, infilato in fondo ad un vallone che più fondo di così non si trova, a queste latitudini, il resto essendo mare. Invisibile rifugio che i turisti sfiorano con la loro presenza senza accorgersene. Durante la giornata, lungo le affascinanti coste dell’isola i motorini si incrociano e gli innamorati si abbracciano, e la sera, in via Roma, il passeggio avanza leggero ed elegante, mentre delle cose succedono a Contrada Imbriacola. Mondi paralleli. Se potessi, inventerei il “Migratour”, forma di turismo culturale che porterebbe il cliente a visitare il cimitero delle navi di legno, ad osservare quelle imbarcazioni di fortuna che arrivano dal mare, come si vanno a vedere le balene, a puntare il binocolo o lo zoom su Contrada Imbriacola per carpire momenti della vita dentro il recinto. E magari, se fosse possibile, ci potrebbero stare anche delle interviste con i ragazzi venuti dal mare, con le forze dell’ordine, con gli operatori del Centro e gli isolani che contano.
Sarebbe, come si suol dire, un trasformare un problema in un’opportunità. Ci guadagnerebbero tutti, non solo gli scafisti, Lampedusa Accoglienza e i fornitori di altri servizi come la Grimaldi. E gli immigrati diventerebbero delle stars, come le tartarughe che covano sotto l’isola dei Conigli. In occasione della fuga del giorno precedente, al molo si erano accalcati numerosi curiosi, e alcuni di loro sono restati a lungo, quindi non pensate che sia fuori di testa.

D’altronde, non è una follia tenere dei ragazzi tre settimane o più in quella gabbia? Non è un’illusione mettere del sonnifero nel loro cibo, come mi hanno raccontato due di loro, per tenerli calmi? Tenere calmi i ragazzi della Rivoluzione dei gelsomini, abituati alle percosse della Polizia ed all’assenza dello Stato? Abituati a vivere con la disoccupazione e la corruzione che stringono nella morsa le città del Meridione tunisino? Che gridano “sciughurl,hurriya, karama wataniya” (fa rima, e vuol dire “lavoro, libertà e dignità cittadina”)?
Certo, non possiamo fare come molti cittadini tunisini, che hanno accolto volontariamente e spontaneamente nelle loro case quattrocentomila profughi libici in fuga nelle settimane successive al 17 febbraio, o che offrivano panini e bevande a chi attraversava la frontiera. Ma quantomeno, se qualcuno volesse ospitare uno di questi ragazzi che arrivano da noi, non dovrebbe meritarsi una condanna per favoreggiamento dell’immigrazione illegale, come prevede la legge italiana.

Di madre libica e padre tunisino, separati, Ayman faceva il cuoco a Sarman, in Libia. Otto mesi prima dello scoppio della ribelliona libica, mentre si trovava in Tunisia, istigato dal padre, suo zio poliziotto lo fa arrestare con l’accusa di essere uno spacciatore, accusa che Ayman nega. Ayman viene picchiato e torturato. Si procura una lametta, e si ferisce al braccio sinistro tagliandosi le vene per uscire di galera. Il suo braccio è devastato da moltissime cicatrici. Ritorna in Libia, e tre giorni dopo lo scoppio della rivolta anti-Gheddafi, raggiunge la Tunisia con la madre. Qualche giorno fa, madre e figlio partono insieme, la madre, di nazionalità libica, con un’aereo per Parigi, ed il figlio, di nazionalità tunisina, con un’imbarcazione per Lampedusa, con l’intenzione di raggiungere la madre in Francia. Ayman è disposto a tutto pur di non tornare, e come lui molti altri.

Dopo una settimana al Centro di Prima Accoglienza e Soccorso, è ora tempo di trarre alcune riflessioni.

Innanzitutto, non si possono trattenere per settimane delle persone nelle condizioni che ho visto. Due devono essere le ragioni per cui vengono trattenuti così a lungo: o i Centri di Identificazione ed Espulsione ed i Centri di accoglienza per richiedenti asilo, in cui devono essere trasferiti sulla terraferma, non li possono temporaneamente accogliere per ragioni che non conosco, o vengono trattenuti per incrementare i profitti dell’ente gestore di Contrada Imbriacola, minimizzando i costi.

Un ragazzo arrivato diciotto giorni prima mi conferma che le lenzuola, che sono del tipo “usa e getta” non gli sono mai state cambiate. Un altro ragazzo ha contato dodici letti-castello nella sua camerata, dove si dorme anche in due sopra e due sotto, su materassi di gommapiuma. Alcuni dormono sul pavimento senza materasso. Per fuggire il disordine, altri mettono il materasso in cortile e dormono fuori. Viviana e Myriam entrano il giorno della rivolta nel reparto donne con Najat e trovano i materassi per terra. Un bagno è inutilizzabile, è allagato. Le docce sono allagate, tranne una.

Ho tenuto nota del menù della settimana tra il 24 ed il 29 (tranne per la cena di quest’ultimo giorno, quello della rivolta), grazie alla diligente cooperazione di Safwan ed alle informazioni ricevuti da altri ragazzi. Il rancio viene servito in sacchetti di plastica e le razioni confezionate in vaschette sigillate con una termosaldatrice. Ecco la dieta:

Colazione: latte caldo senza zucchero, né caffè, e pezzo di torta, tutti i giorni. Il giorno 29 di agosto, due petits gâteaux e una mini-confezione di fette biscottate.
Pranzo: maccheroni al pomodoro tutti i giorni; patatine fritte tutti i giorni, senza sale; carne macinata tutti i giorni, tranne il 27 e il 28, in cui vengono servite polpette fritte (non potevano identificare se fossero di carne o pesce); mela della Val di Non tutti i giorni, probabilmente dell’anno precedente, conservata nelle celle frigorifere, tranne il 29, in cui viene servito un succo di frutta in confezione di cartone.
Cena: riso tutti i giorni, tranne il 27, in cui servono maccheroni (ma ritengo che l’informazione ricevuta sia errata, e che si tattasse di riso); patatine fritte il 24 e il 27, salsa che assomiglia a delle melanzane o ad una peperonata il 25 e il 28 (segnalata come particolarmente cattiva) e fagioli il 26; carne macinata il 24, il 26 e il 27, e uova sode il 25 e il 28; mela tutti i giorni, tranne il 28, in cui viene servito un succo nel cartone.

Molti ragazzi mi chiedevano se la carne fosse halal, macellata come fanno i musulmani, e siccome erano convinti che non lo fosse, non la mangiavano. Il livello di crescente rigetto del cibo portava molti, dopo pochi giorni, a mangiare sempre meno, per poi gettare il resto nella spazzatura. La colazione era almeno servita prima dell’alba, per rispettare l’orario del Ramadan. L’aerofagia e la stitichezza devono sicuramente colpire molti di loro, poiché la frutta e la verdura fresche sono assenti dalla dieta. Khaled racconta una filastrocca: “Pasta-riso, riso-pasta. Pasta-riso, riso-pasta. Anche Berlusconi mangia pasta-riso, riso-pasta? E le patate?”.

In secondo luogo, si devono sistematicamente informare i ragazzi di quello che succederà loro, di come è organizzata la giornata al Centro, di chi è responsabile di cosa, degli orari dei servizi e di quanto dice la legge italiana al loro riguardo. Insomma, di quali sono i loro doveri ed i loro diritti durante il soggiorno. Questo faciliterebbe molto le cose ed eviterebbe malintesi. Non ho visto un solo dépliant informativo girare nel Centro. Diverse devono essere le ragioni per cui non viene fatto. Ne elenco alcune: o perché i termini dei servizi che il gestore di Contrada Imbriacola è tenuto ad offrire non vengono rispettati; o perché le autorità sono divise sul che fare con questi stranieri e sull’applicazione della legge nei loro riguardi, in particolare rispetto ai tunisini; oppure, semplicemente perché non vengono considerati tanto umani come noi.

Infine, dobbiamo accettare il fatto che è più forte il bisogno di arrivare che le leggi scritte per impedirlo. Non si può andare contro la volontà di molti popoli e il corso della storia. L’integrazione tra Europa e Mediterraneo sta già scritta, i popoli della riva sud vogliono convivere con noi nell’uguaglianza, offrono la loro eredità culturale, il senso dell’ospitalità e la forza lavoro. Non c’è futuro per noi in un Mediterraneo tagliato in due, continueremo a restare in una periferia. Sihem Bensedrine, attivista per i diritti umani ed esponente di spicco del Consiglio nazionale tunisino delle libertà, in una recente conferenza in Italia, ha detto che i tunisini non dimenticheranno mai chi ha portato loro soccorso in questo momento di cambiamento storico. Né probabilmente dimenticheranno chi l’ha loro negato. Noi a quale categoria vogliamo appartenere? Le nostre leggi, su cui si fonda la politica dei rimpatri, vogliono forse alimentare l’economia sommersa ed il lavoro in nero? Oppure la nostra vista è annebbiata da schemi ideologici su cui fondiamo la nostra legittimità politica e sociale? “Vuoi che ti dica ciò che penso? Penso che siamo ciechi, ciechi che vedono, ciechi che pur vedendo, non vedono” – dice uno dei protagonisti del mio romanzo preferito, Saggio sulla cecità , di José Saramago.

All’inizio di questo diario parlavo di due eserciti che sono presenti dentro e fuori Contrada Imbriacola, quello dei volontari e degli attivisti per i diritti degli immigrati, e quello delle forze dell’ordine. Dopo una settimana, ho coltivato la sensazione che entrambi gli eserciti soffrano di questa macchina di gestione degli arrivi. Sono diversi nel modo di pensare e nello stile di vita, hanno funzioni e compiti differenti, me entrambi subiscono gli effetti perversi di una macchina costruita per ragioni ideologiche. Entrambi gli eserciti stanno al fronte, ed hanno visto. Sicuramente tra loro vi sono vedenti che vedono, non ciechi che pur vedendo, non vedono. La rivolta del 29 agosto poteva trasformarsi in una strage, ma così non è stato, e questo è anche merito di molti agenti. Oddio, la presenza di osservatori come noi ha certamente incoraggiato la contenzione, ma la presenza simultanea dei due eserciti è sicuramente una garanzia per evitare possibili disastri, provocati dai nostri legislatori e dall’industria dell’accoglienza.

Sulla strada costiera che costeggia la pista dell’aeroporto di Lampedusa, sta la lapide dedicata ad un ragazzo italiano prematuramente scomparso. Ha la forma di un libro di marmo aperto, su cui sta scritto:
“Il tuo fiore avrebbe potuto sbocciare da ogni lato, se un vento crudele non avesse intristito i tuoi petali”.Questo libro aperto è rivolto verso il mare, e le sue parole prendono la direzione del sud, quando c’è aria. L’ho trovato qualcosa di straordinario, perché lo noti per caso, ti sorprende quando pedali in direzione di Cala Francese su quella strada silenziosa, e capisci subito che non sia lì solo per un povero ragazzo.

Per un momento ho pensato che avrei voluto inserire nel mio Migratour una tappa alla lapide, ma poi me ne sono terribilmente vergognato. Lasciamo che altri lo notino, e si facciano domande sulle storie di quest’isola e del mare cha la circonda, nel segreto del loro cuore.

Note a Margine:
Gianluca Solera è nato sul lago di Garda nel 1966. Di famiglia di origine sefardita, dopo molti anni a Bruxelles come consigliere politico del Parlamento europeo, è partito per la Palestina nell’estate del 2004, dove ha vissuto e che ha percorso tra andate e ritorni per due anni. Autore di Muri, lacrime e za’tar. Storie di vita e voci dalla Palestina (Nuova Dimensione, 2009, II edizione), dal 2006 è coordinatore delle reti della Fondazione Euro-Mediterranea Anna Lindh per il Dialogo tra le Culture, che ha sede ad Alessandria d’Egitto, e si occupa di questioni interculturali. Tra le altre cose, ha pubblicato Di città in città. Poesie sull'Europa (1995).


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