lunedì 5 settembre 2011

Milano-Lampedusa: report dei volontari/esperti legali dell'ARCI sull'isola dal 24 al 31 luglio

Report dal Centro di Soccorso e Prima Accoglienza di Lampedusa, isola di illegalità ai confini di uno Stato di diritto

di Francesca Cancellaro, Luca Masera, Stefano Zirulia

Sommario: Estratto – 1. I diritti fondamentali violati a Lampedusa – 2. Il CSPA non è un CIE: alla ricerca del fondamento giuridico dei trattenimenti presso il “Centro di Soccorso e Prima Accoglienza” di Lampedusa – 3. Il CSPA: la struttura e le condizioni del trattenimento dei migranti – 4. I maltrattamenti – 5. L’ istanza di accesso agli atti.


Estratto Questo report scaturisce dall’esperienza diretta degli Autori, i quali, in qualità di volontari-esperti legali dell’ARCI, sono stati autorizzati dalla Prefettura di Agrigento ad accedere al Centro di Soccorso e Prima Accoglienza di Lampedusa nella settimana dal 24 al 31 luglio 2011.
La struttura era originariamente destinata – come suggerisce la sua denominazione – ad accogliere i migranti nelle prime ore successive allo sbarco, finalità che spiega l’assenza di un sistema di garanzie – in primis il controllo giurisdizionale – assimilabile a quello previsto per i CIE dal T.U. imm.
Tuttavia – lo abbiamo constatato coi nostri occhi – il Governo sta utilizzando il Centro lampedusano come luogo di prolungato trattenimento dei “clandestini”, i quali vi rimangono rinchiusi, in media, dai 10 ai 30 giorni; senza ricevere alcuna informazione in merito alla propria condizione; nella materiale impossibilità di essere assistiti da un legale; e soprattutto senza che tale privazione della libertà personale sia convalidata da un giudice. Abbiamo assistito, in altre parole, alla macroscopica sospensione delle garanzie che governano – nel nostro come in qualunque altro Stato di diritto –  le misure restrittive della sfera personale, garanzie cristallizzate nell’art. 13 della Costituzione ed altresì presidiate dall’art. 5 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Un vero e proprio vuoto giuridico, che si sta consumando al riparo dagli occhi dei media – dal momento che ai giornalisti è vietato l’ingresso al Centro – e che costituisce un terreno fertile per ulteriori violazioni dei diritti fondamentali, in particolare l’integrità fisica e la dignità personale dei trattenuti.
Di fronte a tale situazione abbiamo ritenuto che il primo passo da compiere – nell’ottica di riportare lo Stato di diritto là dove il nostro Paese si affaccia sull’Africa – consistesse nel costringere il Governo a dare spiegazioni del proprio operato. Lo abbiamo fatto depositando – in data 29 luglio 2011 – sei istanze di accesso agli atti alla Questura di Agrigento, attraverso le quali altrettanti migranti hanno domandato alle forze dell’ordine italiane di potere conoscere le ragioni per le quali sono stati privati della loro libertà personale, e lo stato in cui si trova il procedimento all’esito del quale verrà deciso se dovranno essere immediatamente rimpatriati, piuttosto che trattenuti in un CIE o ospitati in un CARA. In caso di rigetto dell’istanza o di mancata risposta da parte della Questura entro il termine di 30 giorni, sarà possibile impugnare il provvedimento negativo o il silenzio-rifiuto innanzi al TAR Sicilia, ottenendo così, tra l’altro, il fondamentale risultato di portare i trattenuti di Lampedusa davanti ad un giudice terzo e imparziale.

1. I diritti fondamentali violati a Lampedusa

Le più recenti cronache relative ai “viaggi della speranza” verso l’Europa narrano le tragiche morti di centinaia di migranti: morti talvolta causate dalle disumane condizioni del trasporto e dalla crudeltà degli scafisti, come accaduto tra il 31 luglio e l’1 agosto ai 25 nordafricani rinchiusi nella stiva di una carretta del mare, asfissiati dalle esalazioni dei motori; morti più spesso dovute a terrificanti naufragi, in taluni casi – l’ultimo è avvenuto tra il 3 e il 4 agosto – consumatisi sotto gli occhi indifferenti delle navi che solcavano quelle acque.
Fatti di questa gravità inducono i media e l’opinione pubblica a focalizzare l’attenzione su ciò che accade ai migranti prima dello sbarco a Lampedusa, ossia durante la traversata del Mediterraneo. Minore attenzione, ed anche minore enfasi, sono invece comprensibilmente riservate alle vicende immediatamente successive allo sbarco, le quali senz’altro non raggiungono i medesimi apici di drammaticità. Ciò non toglie, tuttavia, che anche sul territorio italiano i diritti fondamentali dei migranti siano spesso messi a repentaglio, in primis durante il periodo di trattenimento presso il Centro di Soccorso e Prima Accoglienza (CSPA) situato sull’isola di Lampedusa.
Sul punto occorre subito evidenziare che l’Italia ha recentemente vietato ai giornalisti l’ingresso alle strutture destinate al trattenimento dei migranti (siano esse CIE o CSPA) (v. circolare del Ministro dell’Interno prot. n. 1305 del 1 aprile 2011): tale circostanza, più che giustificare l’evidenziata carenza di informazioni, fa sorgere il sospetto che il nostro Governo abbia inteso mettersi al riparo dai riflettori dei media, allo scopo di porre in essere, indisturbato, condotte illegali.
Un sospetto che ha trovato puntuale e chiara conferma nella nostra osservazione diretta di ciò che sta accadendo – proprio i questi giorni – all’interno del Centro di Lampedusa. Quali volontari dell’ARCI, infatti, siamo stati autorizzati – ai sensi degli artt. 21, co. 7 del Regolamento attuativo del T.U. imm. (d.p.r. 394/1999)  e 15, co. 4 della c.d. Direttiva rimpatri (Direttiva 2008/115/CE) – ad accedere alla struttura nella settimana dal 24 al 31 luglio, e abbiamo potuto vedere coi nostri occhi le prassi “vigenti” al suo interno. La conclusione cui siamo pervenuti è che, fuori dai cancelli del Centro, non sono rimasti soltanto i giornalisti, ma anche alcune delle garanzie fondamentali proprie di uno Stato di diritto.
Anzitutto a Lampedusa il Governo sta violando l’art. 13 della Costituzione italiana e l’art. 5 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Non stiamo parlando di sottili questioni giuridiche, bensì di macroscopiche violazioni del diritto fondamentale alla libertà personale: i migranti che sbarcano sull’isola vengono trattenuti dalle forze dell’ordine all’interno di un luogo circondato da cancelli e filo spinato, per un periodo mediamente compreso tra i dieci e i trenta giorni; tale privazione della libertà personale non risulta legittimata da provvedimenti giurisdizionali, né giustificata da situazioni di emergenza; i trattenuti non ricevono alcun tipo di informazione, né in merito alle ragioni della privazione della libertà personale cui sono sottoposti, né relativamente alla sua presumibile durata, né con riferimento ai propri diritti di difesa.
La totale assenza di informazioni, unitamente all’impossibilità materiale di contattare un legale (v. infra), comportano altresì una evidente violazione del diritto di difesa, anch’esso presidiato tanto dalla Costituzione (art. 24), quanto dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (art. 6)
Infine, l’assenza di controlli esterni su ciò che accade nel Centro – dovuta al già ricordato divieto di ingresso ai giornalisti – sommata all’assenza di un controllo giurisdizionale sui trattenimenti, creano un terreno fertile per la violazione di ulteriori diritti fondamentali, quali la dignità e l’integrità fisica dei migranti: le condizioni di privazione della libertà personale che abbiamo osservato sono infatti tutt’altro che dignitose, e sono talvolta affiancate – ci risulta dai racconti di alcuni migranti – dai soprusi e dalle violenze poste in essere delle forze dell’ordine.

2. Il CSPA non è un CIE: alla ricerca del fondamento giuridico dei trattenimenti presso il “Centro di Soccorso e Prima Accoglienza” di Lampedusa

Occorre subito sgombrare il campo da un possibilequanto frequente, sia nelle notizie riportate dai media che nelle affermazioni di esponenti politici – equivoco: la struttura dove vengono trattenuti gli stranieri sbarcati a Lampedusa non è un CIE, bensì, come già accennato, un CSPA.
La distinzione tra Centri di Identificazione e Espulsione (CIE) e Centri di Accoglienza (CDA, tra i quali rientrano i CSPA), non è sviluppata in maniera organica dalle fonti legislative e sub-legislative, ma si ricava dall’interpretazione sistematica di diverse norme. Di essa dà riscontro anche il sito del Ministero dell’Interno (http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/immigrazione/sottotema006.html).
Il fondamento legale dei trattenimenti presso strutture destinate all’accoglienza, come quella lampedusana, va individuato nel combinato disposto delle seguenti norme: l’art. 10, comma 2 T.U. imm., nella parte in cui prevede il respingimento differito degli stranieri clandestini che “sono stati temporaneamente ammessi nel territorio per finalità di pubblico soccorso”; l’art. 23 del regolamento attuativo del T.U. imm. (d.p.r. n. 394 del 1999), ai sensi del quale “le attività di accoglienza, assistenza e quelle svolte per le esigenze igienico-sanitarie, connesse al soccorso dello straniero possono essere effettuate anche al di fuori dei centri di cui all'articolo 22 [l’art. 22 detta la disciplina attuativa applicabile ai CIE, n.d.a.] per il tempo strettamente necessario all'avvio dello stesso ai predetti centri o all'adozione dei provvedimenti occorrenti per l'erogazione di specifiche forme di assistenza di competenza dello Stato”; la legge n. 563 del 1995 (c.d. Legge Puglia), cui il precitato art. 23 fa espresso riferimento, che contiene alcune scarne disposizioni relative alle modalità di trattenimento e all’imputazione dei relativi oneri economici (si tratta, peraltro, dell’unico riferimento normativo ai Centri di Accoglienza indicato dal sito del  Ministero dell’Interno).
Alla luce delle citate disposizioni emerge come – nelle intenzioni del legislatore – i Centri di Accoglienza fossero luoghi destinati esclusivamente alle prime attività di assistenza ai migranti, da compiersi immediatamente dopo l’arrivo sul territorio, e dunque verosimilmente nell’arco di 48 ore: tale destinazione potrebbe spiegare la mancata previsione dell’apparato di garanzie a tutela della libertà personalein primis la convalida giurisdizionale – che invece assistono il trattenimento nei CIE (cfr. l’art. 14 del T.U. imm., recentemente novellato dal d.l. n. 89/2011, conv. con modif. dalla legge 2 agosto 2011 n. 129, che ha recepito nell’ordinamento italiano la direttiva 2008/115/CE).
Come già evidenziato, invece, il Centro di Accoglienza di Lampedusa viene impiegato per trattenere coattivamente gli stranieri per periodi di tempo che vanno ben al di là di due giorni, essendo del tutto normale che gli “ospiti” vi permangano fino a un mese.

3. Il CSPA: la struttura e le condizioni del trattenimento dei migranti

Al Centro di Soccorso e Prima Accoglienza (CSPA) di Lampedusa si arriva attraverso una strada che si addentra nel brullo entroterra dell’isola, interrotta da un check-point dove le persone non autorizzate all’accesso vengono fermate prima ancora che sia possibile intravedere la struttura.
Superato il controllo si può procedere fino al cancello di ingresso, presidiato da militari dell’esercito. Una volta varcata l’entrata ci si trova all’interno di un cortile dove si incontrano, nell’ordine, i prefabbricati che ospitano gli uffici delle organizzazioni internazionali (UNHCR, OIM, Save the Children), quelli della Questura, le sedi della Lampedusa Accoglienza (gestore dei servizi erogati dal Centro), l’infermeria, ed infine le stanze dei migranti minorenni.
Due cancelli, alti all’incirca tre metri, separano questa prima area da due ulteriori sezioni – in gergo: le “gabbie” – all’interno delle quali sono trattenuti i migranti adulti: da una parte si trovano i cittadini dei Paesi nordafricani, prevalentemente tunisini; dall’altra coloro che provengono dall’Africa sub-sahariana. La separazione tra i due gruppi non è soltanto fisica, ma assume rilevanza anche con riferimento all’accesso alla procedura per il riconoscimento della protezione internazionale: fermo restando che a nessun migrante è concesso di formalizzare la domanda di asilo presso il Centro, abbiamo constatato che, quando i rimpatri vengono eseguiti direttamente da Lampedusa, essi riguardano solo i nordafricani – fatta eccezione per i Libici, in quanto cittadini di un Paese in guerra –, mentre i sub-sahariani, una volta terminato il periodo di trattenimento presso il CSPA, vengono in prima battuta smistati in altri Centri presenti sul territorio Italiano (ossia in altri CSPA, nei CIE, oppure nei CARA).
Ai migranti non è mai concesso di uscire dal Centro, ed anche i loro movimenti all’interno della struttura – in particolare, l’uscita dalle “gabbie”, che consente, ad esempio, di radersi e di accedere all’infermeria – sono disciplinati dalle disposizioni dettate dalle forze dell’ordine.
Alle persone trattenute non viene fornita alcuna spiegazione – né orale, né tantomeno scritta – in merito alle ragioni del trattenimento. Anche successivamente al trascorrere delle prime 96 ore trascorse nel Centro – ossia del limite massimo concesso dall’art. 13 della Costituzione per i provvedimenti restrittivi disposti dall’autorità di pubblica sicurezza – la privazione della libertà personale non viene convalidata dall’autorità giudiziaria: la situazione, come già evidenziato, può protrarsi anche per 30 giorni.
I migranti ricevono soltanto un talloncino di carta riportante un numero identificativo e la data dello sbarco – senza alcuna indicazione dei dati anagrafici – necessario, tra l’altro, per il ritiro dei pasti.
Durante le giornate che abbiamo trascorso all’interno del Centro, ci è parso che le condizioni della detenzione fossero tutt’altro che dignitose.
Nella zona della “gabbie”, anzitutto, le temperature sono elevatissime, sia all’interno che all’esterno dei prefabbricati. Al loro interno si trovano le camere, riempite di letti a castello con materassi sintetici di gommapiuma, dove l’aria risulta irrespirabile sin dal primo mattino: sia in ragione della elevata concentrazione umana, sia a causa della tipologia di edificio e dell’assenza di aria condizionata (presente, invece, all’interno dei prefabbricati ove si trovano gli uffici della Questura e delle organizzazioni). All’esterno dei prefabbricati ci sono soltanto cortili in cemento, e i migranti sono costretti a ripararsi da un Sole bruciante – non dimentichiamo che l’isola è più vicina all’Africa che all’Italia! – rannicchiandosi nelle sottili striscioline d’ombra che si formano durante la giornate.
Assai elevato, inoltre, è lo stress psicologico al quale sono sottoposti i migranti trattenuti: non solo, infatti, sono privati della libertà personale e della possibilità di conoscerne le ragioni e la durata; ma sono altresì impossibilitati a svolgere alcune semplici attività che consentirebbero loro, quanto meno, di “passare il tempo”. Gli unici svaghi concessi, infatti, sono il pallone, e talvolta le carte da gioco. Per il resto sono vietate la carta, e dunque i libri e i giornali, per il rischio di incendi; sono vietate le penne, per il rischio di autolesionismo; non sono ammesse né radio né televisioni; sono contingentate le telefonate, in quanto da un lato a ciascuno viene consegnata una tessera telefonica ogni dieci giorni, della durata di appena sei minuti, dall’altro i pochissimi migranti che dispongono del cellulare non hanno la possibilità di acquistarne le ricariche. Al lettore potrebbero sembrare dettagli, ma è facile cambiare idea non appena si assiste alla scena di decine e decine di ragazzi tra i venti e i trent’anni che trascorrono lunghissime e torride giornate stando immobili, rannicchiati in striscioline d’ombra, in attesa di conoscere quale sarà il loro destino.
Non basta. La qualità del cibo fornito dalla Lampedusa Accoglienza è scandentissima, tanto che molti migranti lamentano disturbi alla salute. Durante la settimana in cui siamo stati presenti abbiamo assistito ad accese proteste dovute al fatto che era stato distribuito cibo vecchio e ormai divenuto cattivo. Anche le condizioni igieniche sono al limite della decenza: per accorgersene è sufficiente dare un’occhiata ai bagni all’interno dei prefabbricati, oppure osservare la spazzatura che si accumula per giorni, a quelle temperature, prima di essere portata via.
Un altro grave problema che abbiamo riscontrato è la pressoché totale mancanza di contatti tra i migranti e l’esterno: anzitutto l’esiguo importo della scheda telefonica che viene loro distribuita consente a malapena di contattare per pochi minuti i propri cari; in secondo luogo il numero delle associazioni che possono accedere al Centro è estremamente circoscritto e controllato attraverso l’autorizzazione ministeriale; infine si deve considerare che i trattenuti non ricevono la visita di alcun legale. Il diritto a ricevere assistenza legale e, più in generale, il diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione, non risultano compressi – ovviamente – né per legge, né per ordine espresso delle Autorità di polizia: restano tuttavia inattuati nei fatti. I trattenuti non ricevono infatti alcune informazione in merito ai propri diritti di difesa, e d’altra parte sono posti nell’impossibilità materiale di rintracciare un legale in grado di seguirli: dovrebbero infatti riuscire a contattare un avvocato esperto di immigrazione, in grado di esprimersi nella loro lingua, e disposto a recarsi a Lampedusa, avvalendosi di una scheda telefonica che si esaurisce in pochi minuti, il più delle volte utilizzati – come farebbe chiunque al loro posto – per contattare i propri cari.

4. I maltrattamenti

Nel corso delle nostre visite nel centro, in diverse occasioni alcuni ospiti ci hanno riferito di aver assistito ad episodi di violenza da parte delle forze dell’ordine nei confronti di migranti che avevano tentato la fuga, o erano tornati al centro dopo essersene allontanati.
Personalmente, peraltro, non abbiamo assistito ad alcuna scena di violenza, né abbiamo parlato direttamente con soggetti che affermavano di essere stati oggetto di violenza.
La nostra esperienza diretta, peraltro, ci consente di riportare un episodio di trattamento degradante, certamente meno grave di quelli appena citati, ma comunque allarmante. Una mattina due militari sono saliti sui camminamenti che circondano il Centro, destinati alle ronde di controllo, ed hanno iniziato – similmente a quanto si fa negli zoo – a lanciare merendine all’interno della gabbia dei migranti sub-sahariani. Questi ultimi hanno iniziato ad avventarsi sul cibo con foga, strattonandosi, spingendosi e gettandosi e terra. Nonostante tale situazione risultasse altamente umiliante, i militari hanno portato avanti il giochetto per alcuni minuti, finché non hanno esaurito le scatole di merendine e si sono allontanati.

5. L’ istanza di accesso agli atti

Come abbiamo detto, lo Stato italiano non fornisce ai soggetti trattenuti a Lampedusa alcuna informazione: né in merito alla ragione che dovrebbe giustificare la privazione della libertà personale; né in merito alla presumibile durata di tale condizione.
D’altra parte, né la ragione della detenzione, né la sua durata, possono essere ricondotte ad esigenze di carattere puramente organizzativo, ossia i tempi tecnici di smistamento dall’isola ai vari Centri presenti nel resto d’Italia. Infatti – a parte l’ovvia considerazione che siffatte esigenze, anche ove esistessero effettivamente, non potrebbero certo giustificare la macroscopica violazione degli artt. 13 Cost. e 5 CEDU in atto a Lampedusa – occorre sottolineare come l’ordine di arrivo dei migrati al Centro non coincida con quello di trasferimento altrove: non è detto, in altre parole, che coloro i quali sbarcano prima siano i primi ad essere trasferiti. In particolare, dialogando con i migranti e confrontando i numeri riportati sui talloncini identificativi, ci siamo immediatamente resi conto che molti di loro assistono all’arrivo ed al trasferimento dei propri compagni, senza essere informati delle ragioni alla base della maggiore durata della loro detenzione.
Assistere quotidianamente a tale situazione ci ha sollecitato molti interrogativi.  In particolare, ci siamo domandati quali siano le logiche che sottostanno alla scelta – posto che, come appena visto, non può trattarsi di una necessità organizzativa di trattenere i migranti per prolungati periodi, all’interno di un Centro strutturato e disciplinato per ospitarli un paio di giorni. Le risposte potrebbero essere le più varie: in questa sede – anche alla luce dei nostri dialoghi con le altre associazioni ed organizzazioni attive nel Centro – possiamo abbozzarne due.
Anzitutto ci è parso di comprendere che le operazioni di trasferimento dei migranti vengano rallentate nei periodi in cui gli sbarchi sono meno frequenti – e conseguentemente il Centro ospita poche persone – allo scopo di far viaggiare le navi soltanto quando sono “a pieno carico”,  così risparmiando sui costi del trasporto.
In secondo luogo ci siamo chiesti se il prolungato e anomalo periodo di trattenimento di alcuni stranieri – specie quelli che già in passato hanno fatto ingresso nel nostro territorio, e che in alcuni casi hanno precedenti penali – non sia dettato dall’esigenza di espletare, nei loro confronti, accertamenti o indagini di polizia, rispetto ai quali il trattenimento potrebbe costituire una sorta di “misura cautelare de facto”, svincolata dalle garanzie del codice di procedura penale.
Dal momento che né la polizia, né le Organizzazioni operanti all’interno della struttura, hanno saputo o voluto spiegarci le ragioni alla base delle prolungate detenzioni dei migranti, abbiamo deciso di richiedere tali informazioni per mezzo dello strumento dell’accesso agli atti, disciplinato dagli artt. 22 e ss. della l. 241/1990. Il nostro scopo era – ed è tuttora, visto che non abbiamo ancora ricevuto risposte – quello di costringere l’Amministrazione a fornire le spiegazioni dovute: come è noto, infatti, la legge (art. 25, co. 4 l. 241/1990) prevede che, allo spirare del termine di trenta giorni dall’istanza, il silenzio serbato dalla P.A. equivalga ad un provvedimento di rifiuto di fornire le informazioni richieste, come tale impugnabile davanti al TAR Sicilia.
In data 29 luglio 2011 abbiamo depositato presso l’Ufficio Immigrazione della Questura di Agrigento distaccato nel Centro, sei istanze-pilota di accesso agli atti, sottoscritte da altrettanti migranti, sia sub-sahariani che nordafricani.
Non vi è dubbio che, qualunque sarà la spiegazione fornita dall’Amministrazione – eventualmente a seguito di condanna da parte del G.A. – le detenzioni prolungate dei migranti continueranno ad essere illegittime, atteso che nessuna ragione può giustificare la violazione degli artt. 13 Cost. e 5 CEDU.
Riteniamo tuttavia che tale iniziativa rappresenti un passo importante nella direzione di riportare lo Stato di diritto là dove il Governo italiano sta tentando di sospenderlo, costringendolo anzitutto a dare spiegazioni sul proprio operato. La richiesta di informazioni, del resto, non è che un primo passo per l’esperimento di future iniziative sul piano delle tutele giurisdizionali: sia davanti al giudice civile, sia davanti al giudice penale, sia  – una volta esaurite le vie di ricorso interne – al cospetto della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Nessun commento: